Stappatura di una bottiglia venerabile, con relativo riaffiorare di ricordi.

Nel 1996 il mio incarico per la guida dei vini del Gambero Rosso era seguire alcune aree toscane e sarde. Non c’erano ancora strade asfaltate e per raggiungere i territori delle degustazioni ci spostavamo a dorso di mulo. Non era stato nemmeno inventato il cavatappi, sicché si doveva aprire le bottiglie con un ferro arroventato. Ciò che comportava una significativa perdita di tempo e riduceva a quattro il numero di campioni assaggiati nel corso di una giornata di lavoro.

Quell’anno fui costretto a portarmi dietro un torso di broccolo borioso che univa un’innata arroganza a una micrometrica capacità di leggere al contrario le qualità di una batteria di vini: considerava migliore l’unica sciacquatura di piatti del gruppo, e meno interessante il vino palesemente più riuscito. A queste antidòti univa alcuni tic preoccupanti, come allineare in modo maniacale per segmenti orizzontali gli oggetti che lo circondavano.
Un tipo tutto sgenio e regolatezza, insomma.Non avevo ancora quella tranquillità che deriva dal fatto di essermi rotto i coglioni del mondo del vino e del mondo in generale, quindi mi accaloravo, difendevo con veemenza il mio punto di vista. E siccome provenivo dalla redazione centrale, potevo in via provvisoria mettere un punto fermo alla discussione. Ciò che feci una mattina a Montepulciano, davanti a un Nobile che di elementi aristocratici aveva ben poco. Ricordo bene che nell’occasione mi spalleggiò Roberto Minnetti, storico cuoco che aveva chiuso da qualche anno il Pianeta Terra a Roma e che al tempo era attivo a Montalcino come responsabile del ristorante di Poggio Antico.Nonostante fosse reduce da un brutto incidente d’auto (o di moto) che lo aveva – provvisoriamente, per fortuna – sfigurato, facendolo assomigliare a un danese rimasto troppe ore al sole tunisino, Roberto aveva le idee e il palato chiari, e disse senza mezzi termini che quel vino non avrebbe dovuto fregiarsi della denominazione di origine.Dopo tali belle parole, il tizio presuntuoso se ne andò con una dozzina di pive nel sacco, mentre nel pomeriggio Roberto e io andammo a visitare un’azienda pivot della zona, i Poderi Boscarelli della famiglia de Ferrari Corradi. Provammo varii rossi e io riportai a Roma tre o quattro bottiglie, acquistate per un totale di circa 30.000 lire, se ben ricordo.

Poche sere fa, durante uno dei lavori di scavo archeologico che effettuo di tanto in tanto nella mia cantina, ho riportato alla luce l’ultimo flacone di quel gruppo. L’etichetta era quasi del tutto illeggibile, ma da analisi condotte con il metodo della datazione radiometrica (metodo del 14C) ho appurato con relativa certezza che si trattava di un Nobile Boscarelli Riserva 1988.

L’assaggio è stato sorprendente: ancora relativamente giovane nel colore, un rubino che solo verso il bordo cedeva al granato, aveva un ventaglio di aromi fruttati che riuscivano ancora a combattere con energia contro i toni della terziarizzazione, e un sapore austero, profondo, robustamente – e finemente – tannico.

Come sempre succede con il vino, con il buon vino, non si beve soltanto un liquido idroalcolico. Si bevono ricordi, persone, eventi, circostanze fortunate e non, emozioni, frammenti piĂą o meno estesi della propria storia personale. Per chi volesse provarlo, ho ravanato su internet ma non sembra facile ripescarne un esemplare. Buona caccia.

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